H
o letto con vero piacere i due numeri
di KERB MOTORI e desidero eprimere
tutti i miei complimenti al suo ideatore.
Ho trovato le sezioni ON THE ROAD e CAFE’
BIKES nuove: ricche di informazioni, che non
si trovano nei periodici del settore. I ricordi
di Reims, Le Mans, Monza, Daytona, Sebring,
Indianapolis e Watkins Glen mi hanno fatto
rivivere emozioni del passato, ma vanno an-
che a beneficio dei giovani sportivi di oggi.
Bellissimo il racconto dei “collaudotori Ferra-
ri”, che provano le vetture di oggi sullo stes-
so percorso degli anni 1950/60. La Cuba di
Fangio è una pagina che farà piacevolmente
ricordare a tutti, il Paese, l’Uomo, il successo
di un Campione. Ne approfitto per racconta-
re direttamente altri aneddoti di quei tempi
gloriosi. A volte, legati a eventi molto doloro-
si. Negli anni ’50 i circuiti dove si vedeva chi
andava forte non erano quelli permanenti.
Una vettura e un pilota dovevano vincere su
percorsi stradali come il Nürburgring, Mon-
tecarlo, Rouen, Le Mans, per consacrarsi veri
campioni. Fra questi tracciati vi era anche
Reims, di cui KERB MOTORI ha scritto sul n.1.
La 12 Ore era una delle corse più attese, an-
che per il montepremi e gli ingaggi, pagati
dai produttori di Champagne. Si arrivava in
pista al tramonto, perché la gara si svolgeva
da mezzanotte a mezzogiorno. I veri appas-
sionati passavano la notte svegli, accampati
lungo la pista. La mattina invece, arrivava tutta
la ricca borghesia parigina, a un’ora di strada,
per ammirare i bolidi in azione. Di quei tempi
mi manca il rapporto tra piloti. Si frequentava-
no, si confrontavano, si studiavano. Hawthorn
in particolare prendeva a esempio Fangio. A
Spa al curvone di Malmedy in fondo al ret-
tilineo, l’argentino cambiava una volta sola
mentre gli altri lo facevano due volte. Così
Hawthorn lo seguì, capì che Fangio aspetta-
va gli 8.000 giri per passare di marcia e poi ai
box gli chiese lumi. Anche a Reims c’era una
curva dove Fangio era più veloce, ma l’ingle-
se riuscì a emularlo e a vincere nel 1958, A fine
gara fu sul punto di doppiare l’asso argenti-
no di origini italiane, ma in segno di rispetto
per il grande campione conosciuto come Il
Maestro, rallentò. Fangio fini 4° davanti a Col-
A
A
A
A
A
A
07
KERB 1.13
Romolo Tavoni è un raro esempio di onestà, coerenza, correttezza, lucidità. E’ un privilegio conoscerlo. Nasce a Casinalbo (Modena) nel 1926, e diplomatosi
inizia a lavorare in Maserati. Nel ‘50 diventa segretario di Enzo Ferrari e dal ’57 al ‘61 è Direttore Sportivo della Scuderia. Vince due Mondiali F.1 con Mike
Hawthorn nel 1958 e Phil Hill nel 1961, oltre a quattro titoli iridati Sport Prototipi. Alla fine del 1961 Ferrari licenzia alcuni dirigenti contrari alla presenza alle corse
della moglie Laura. Fra di essi Carlo Chiti, Romolo Tavoni, Giotto Bizzarrini e altri, che creano l’ATS col supporto della Scuderia Serenissima del Conte Volpi
di Misurata. Nel ’64 Tavoni passa all’Ufficio Sportivo dell’ACI Milano, poi alla CSAI, e dal ’72 all’Autodromo di Monza fino al ‘96, come Direttore responsabile
delle attività di pista. A 86 anni, il ragionier Romolo ha appena fatto un tagliando al telaio, ma il suo motore romba più forte che mai.
©Ferrari
CLARK MI DISSE: “I’M VERY SORRY”
di Romolo Tavoni
uscì di pista perché le sua ruota posteriore
sinistra si agganciò con quella dello scozze-
se, ndr). La gara però non venne sospesa
e Phil Hill si aggiudicò il Gran Premio tra i
festeggiamenti della folla sulla tribuna cen-
trale. Infatti non tutti avevano capito cos’era
successo dall’altra parte della pista. A fine
stagione, Hill conquistò anche il titolo piloti.
Secondo le regole dell’epoca, non c’erano
i presupposti per sospendere la corsa. La
vettura e il corpo di Von Trips erano fuori dal
manto d’asfalto e così si poteva continuare a
norma di regolamento. Ai tempi, le misure di
sicurezza erano molto diverse e l’esperienza
derivava unicamente dagli incidenti vissuti.
Nessuno avrebbe immaginato che una mac-
china potesse impennarsi sul terrapieno in
quel modo, compiendo due giri su sè stes-
sa per poi finire addosso al pubblico. Spia-
ce vedere l’autodromo di Monza in questa
fase di declino: non può rinchiudersi dentro
il suo recinto, dentro il parco, ma deve aprirsi
all’esterno. Monza deve ritrovare gente che
le vuol bene e tornare a essere grande nel
mondo. Deve organizzare nuovamente la
1000 km, che era la seconda gara con il mag-
gior numero di spettatori. Ai tempi della Fer-
rari quelli delle altre squadre ci dicevano che
eravamo fortunati, perché in Italia avevamo
Monza e potevamo provare le nostre auto,
capire cos’era la velocità. Un giorno anche
Ferrari mi disse: “Abbiamo provato la nostre
vetture all’autodromo di Modena, ma per
capire se vanno veramente bene dobbiamo
andare a Monza”. Quando arrivai a Monza
per lavorarci, rimasi incantato dalla struttura e
dal suo contesto nel parco e capiì che Ferrari
aveva ragione.
lins e decise di porre fine alla sua carriera,
turbato dalla morte di Luigi Musso, avvenuta
in quella stessa competizione. Monza, con
Modena, è stata il teatro della mia vita. Il 10
settembre 1961 ero Direttore Sportivo della
Scuderia Ferrari. “Dì a Phil Hill che può fare
una gara tranquilla, non ho intenzione di duel-
lare, poi vediamo come va negli ultimi dieci
giri”. Queste furono le ultime parole cheWol-
fang Von Trips mi disse prima della partenza
di un grand prix maledetto, funestato da un
incidente che causò la morte di 14 persone
e dello stesso pilota tedesco. Io andai a ri-
ferire a Hill quello che Von Trips mi aveva co-
municato e lui mi chiese sorpreso se davvero
l’avesse detto lui. All’epoca la pressione me-
diatica era già forte. Il duello tra i due piloti
Ferrari era molto seguito: la stampa tedesca
spingeva per Von Trips, leader della classifi-
ca, mentre i giornali di tutto il mondo tifavano
per Phil Hill, che sarebbe potuto diventare
il primo americano ad aggiudicarsi un Mon-
diale di Formula 1. La posizione di Enzo Fer-
rari era neutrale. Quello che contava era che
fosse una sua macchina a vincere. Von Trips
era un gran signore nei modi e nei fatti, bra-
vissimo nello smorzare gli attriti all’interno
della squadra. Prima della partenza non c’era
una particolare tensione. Avevamo in pugno
la gara; chiesi soltanto di non fare fuori giri
salvaguardando i motori. Mi ricordo che Hill
a pochi minuti del via disse di non ricordarsi
più come girasse la prima curva dopo il tra-
guardo. Era una battuta e tutti risero; fu a quel
punto che Von Trips mi fece cenno di seguirlo
e lo accompagnai a cambiarsi. In quel fran-
gente mi disse che potevo riferire a Hill di sta-
re tranquillo, che lui non aveva intenzione di
metterlo in difficoltà. Passarono pochi minuti.
Subito dopo la partenza, al secondo giro mi
trovavo nei box, quando il direttore di gara
mi informò dell’accaduto. Corsi lungo la pi-
sta raggiungendo il punto preciso dell’inci-
dente e capii immediatamente che si trattava
di qualcosa di veramente drammatico. Von
Trips era sul prato senza vita e tra il pubblico
c’era il panico. Tornato nei box, Jim Clark mi
passò davanti. Era veramente dispiaciuto e
mi disse soltanto “I’m very sorry” (Von Trips